WWW.TORAH.IT

Purim e Yom Ha Kippurim

A pochi giorni da Purim vorrei soffermarmi su un aspetto della ricorrenza che malgrado la sua evidenza raramente viene notato.

Lo farò seguendo degli spunti del grande rabbino ottocentesco Jehudah Aryeh Alter di Gur, più noto dal titolo della sua opera come "Sfat Emet", la bocca della verità.

Mi riferisco alla assonanza dei nomi della prossima festa, Purim, e Yom Ha Kippurim. Già lo Zohar l'aveva notata sottolineando che esistono collegamenti tra le due ricorrenze molto più profondi di quanto a volte non si pensi: i nomi ed il valore delle parole nell’ebraismo non sono, e non possono mai essere considerati, casuali.

La radice KPR indica espiazione mentre PUR indica sorteggio. In qualche modo entrambi i nomi riflettono il significato delle due radici.

Come primo collegamento salta subito all’occhio che le due ricorrenze sono occasioni in cui un decreto divino negativo per il popolo ebraico, apparentemente inalterabile e definitivo, viene revocato grazie alla sincera teshuvà degli ebrei.

A Purim, Haman aveva acquistato, da un Ahascverosh tutto sommato complice, il diritto di annientare il popolo ebraico. Saranno i tre giorni di digiuno e preghiere indetti da Ester a riportare un ebraismo assimilato alla nuova e definitiva volontaria accettazione della Torà e a dare il via ad una serie di eventi che portano alla trasformazione del decreto ed alla salvezza degli ebrei.

A Kippur, sia nel primo drammatico Kippur della nostra storia, sia in quello che celebriamo tutti gli anni, si verifica qualcosa di molto simile.

Come sappiamo il primo Kippur coincise con la discesa di Mosè dal monte Sinai con le seconde Tavole della Legge.

Il popolo ebraico aveva appena commesso l’abominio del vitello d’oro e K"B aveva decretato di sterminarlo sostituendolo con la progenie di Mosè. Solo le preghiere di Mosè ed il pentimento del popolo, la teshuvà, portarono al perdono e ad una nuova relazione con il Signore, segnata dal permesso accordato al Sommo Sacerdote di entrare, unico uomo e solo nella occasione di Kippur, nel Santo dei Santi del Tabernacolo.

Su scala diversa, tutti gli anni questa situazione si rinnova: come potremmo sfuggire al peso dei nostri peccati, generati dalla nostra intrinseca incapacità di aderire e mettere in pratica tutte le mizvot?

La somma di tutti i nostri peccati comporterebbe a rigor di giustizia la nostra cancellazione. Ma ecco che il nostro digiuno, la teshuvà, la preghiera, la zedakà, ci salvano da questa sorte.

Nella celebrazione del Kippur all’epoca in cui avevamo ancora il Tempio due erano i momenti più significativi: l’ingresso del Koen Gadol nel Kodesh ha Kodashim, a cui abbiamo già accennato, e la cerimonia del capro espiatorio.

Solo in quel giorno e solo il Koen Gadol poteva entrare (ed uscire vivo) dal luogo ove dimorava la Presenza Divina, la Shehinà.

Rimuoveva l’abito riccamente ornato d’oro che poteva ricordare il peccato del vitello ed indossava una specifica tenuta di lino bianco che ancora oggi si riflette negli abiti bianchi che noi indossiamo di Kippur.

Ebbene, il superare il Parochet (la tenda che chiudeva l’accesso alla parte più sacra del Tempio) ed entrare nel Santo dei Santi non è solo un superare una barriera fisica ma rappresenta evidentemente il nostro passaggio da un mondo materiale in uno spirituale ben più elevato.

Anche Ester, rafforzata spiritualmente dal digiuno e dalla teshuvà sua e di tutto il popolo, azzarda un passo che può portare alla morte, entra senza permesso nelle stanze private del Re Achashverosh nel superamento di una barriera fisica ma anche di una spirituale.

È evidente che a Kippur, come a Purim, risultati spirituali irraggiungibili tutto l’anno sono alla portata di ciascuno di noi grazie alla sincera teshuvà.

Anche a Kippur come a Purim il sorteggio, pur , ha la sua parte.

A Purim, come noto venne sorteggiata la data dello sterminio degli ebrei.

A Kippur invece il sorteggio riguardava il destino di due capri: quale dei due sarebbe stato sacrificato sull’altare per espiazione; e quale invece sarebbe stato simbolicamente caricato dei peccati del popolo ebraico per portarli con se in un precipizio (Azazel) nel deserto dove avrebbe trovato la morte. È il famoso "capro espiatorio" entrato poi nel linguaggio comune non solo degli ebrei.

La decisione di sterminare gli ebrei venne presa durante un banchetto alla corte di Achashverosh, banchetto nel quale il re vestiva le vesti che il Sommo Sacerdote indossava a Kippur ed esibiva sul tavolo gli utensili d’oro del Santuario. Come lo sappiamo? La prima lettera del sesto verso della Meghillà è scritta più grande rispetto alle altre. La lettera è una het (valore numerico 8) ed il verso parla degli oggetti di valore utilizzati nel banchetto di Assuero. I Maestri interpretano da qui che il Re aveva tirato fuori per il banchetto gli arredi sacri del Santuario che erano stati depredati da Nabucodonosor e si era vestito con gli otto abiti del Sommo Sacerdote!

C’è un altro funesto e vergognoso banchetto nella Torà: quando i fratelli di Giuseppe, gettatolo nel pozzo prima di venderlo ai mercanti Midianiti, fanno un patto di omertà e tingono di rosso col sangue di un agnello la sua tunica di lana per provarne, di fronte al padre, la morte.

Una tunica, ora rossa, che diviene il simbolo del loro peccato.

Troviamo di nuovo un fiocco di lana rossa il giorno di Kippur: un fiocco che veniva legato al capo del capro destinato ad Azazel dopo il sorteggio per distinguerlo dall’altro.

Miracolosamente, quando il capro precipitava nel deserto, lontano dal Tempio, un pezzo della stessa lana rossa, appeso sulla porta del Tempio, tornava bianco annunciando, con la morte del capro, il perdono di tutti i peccati!

Isaia ci dice: "Anche se i tuoi peccati fossero rossi come lo scarlatto, sbiancheranno come neve..."

In un altro punto della Torà sono citati due capri e, come sempre, dall’accostamento delle due situazioni possiamo imparare qualcosa. Giacobbe sta per dare la benedizione a suo figlio Isacco e Rebecca gli ordina di prendere due capri scelti, "tovim", buoni. Il midrash si ricollega al rito di Kippur e nota che i capri saranno "buoni" non solo per Giacobbe/Israele, ma anche per tutta la sua progenie che grazie ad essi avrebbe ottenuto l’espiazione di Kippur.

I due capri sono chiamati nella Torà "seir": Ma "Sair" è un secondo nome di Esaù. Di conseguenza quando il Koen Gadol depone sulla testa di un capro tutti i peccati del popolo di Israele è come se lo facesse sulla testa di Esaù, la quintessenza del nostro nemico.

In altre parole la responsabilità per la cattiva condotta del popolo ebraico dovrebbe essere addossata a fattori esterni che ne alterano la buona indole, cioè ad Esaù.

Anche a Purim il destino deciso per Israele viene traslato su Esaù.

Aman, discendente di Esaù e di Amalek ottiene il decreto contro gli Ebrei ed erige la forca per Mordechai: ma sarà lui ad esservi appeso.

Si era lamentato, Aman, con il Re, ci dice il Midrash, che gli ebrei avevano troppe feste. Sarà paradossalmente lui ad aiutarci ad aggiungerne un’altra al calendario.

E quando dopo la venuta del Mashiah, presto ed ai nostri giorni, tutto cambierà, anche le feste, assumendo altri diversi ed inimmaginabili valori spirituali, il midrash ci assicura che due sole ricorrenze rimarranno come sono:

Purim e Yom ha Kippurim.

Auguriamoci di avere il merito di festeggiarle degnamente, riuniti a tutte le generazioni di Israele, presenti, passate e future.

Hag sammeah!

David Pacifici

Torna alla home page