RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ


XXV

ZAV

(Levitico VI, VIII)

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La Parashà di questa settimana continua gli argomenti iniziati nella precedente: continuano le prescrizioni relative alle modalità dei vari sacrifici e alle varie specie di essi, continuano le prescrizioni relative all'inaugurazione del servizio sacro da parte di sacerdoti. C'è un passo in questa Parashà - ed è quello con cui essa solennemente si apre - che mi sembra particolarmente indicato per dimostrare quale era lo spirito che doveva presiedere allo svolgimento delle pratiche connesse col Santuario: è un passo che forse intenzionalmente è stato collocato all'inizio della Parashà odierna - nel cuore degli argomenti trattati nelle due Parashoth - per dimostrare quale ne deve essere lo spirito animatore. Il passo si occupa di delineare le caratteristiche della olà, cioè del sacrificio olocausto che doveva ardere completamente sull'altare e che risponde a uno dei tipi più comuni di sacrificio:

"Questa è la legge relativa all'olà: è la olà che sta sul braciere, sull'altare tutta la notte, fino al mattino; e il fuoco arderà sull'altare" (Levitico VI, 2). " Fuoco perenne arderà sull'altare, non si spegnerà mai!" (Levitico VI, 6). Un grande insegnamento è racchiuso in queste parole con cui solennemente si apre la Parashà. La Torà vuol dire: diverse e svariate potranno essere le specie di sacrificio, diversi i motivi per cui esso si presenta, diverse le modalità con cui si offre, ma una cosa deve essere costante e immutabile, ed è il fuoco dell'altare su cui il sacrificio deve presentarsi. Diversi possono essere i nostri sentimenti, diverse le vie o i motivi che ci spingono a ricercare Dio e ad avvicinarsi a Lui, ma l'animo, la disposizione dell'animo deve essere sempre uguale.

Il fuoco è il simbolo dei sentimenti più sacri e più puri; il fuoco è il segno quasi più immateriale che ci avvicina a Dio; è scelto nella Torà come elemento che avvolge la presenza di Dio o dei suoi messaggeri; in un fuoco appare Dio a Mosè sul roveto; in un fuoco che è chiuso in una nube scende sul Sinai; in un fuoco si posa sul Santuario quando esso è inaugurato; fuoco scenderà dal cielo, per consumare le prime offerte dell'altare, e fuoco è anche ciò che arde nei nostri cuori, è l'aspirazione al bene, e l'amore per i nostri simili, è lo slancio verso il divino, è ciò che si agita di puro in noi, che consuma le scorie e ci innalza verso Dio.

Questo fuoco se è puro deve ardere perennemente in noi; non deve mai spengersi; non deve essere come il fuoco delle passioni o degli appetiti volgari che consuma e non riscalda, che brucia le nostre fibre e non ne alimenta le forze vitali; e non deve essere fuoco improvviso o fatuo come quello che nasce da un improvviso entusiasmo, da una parola incitatrice o da un discorso che accenda in noi una scintilla ma solo per brevi istanti; non basta quella scintilla, il fuoco dell'amore alle cose sacre e a Dio deve essere sempre rinnovato: "E farà ardere sull'altare il Cohen legna, presto, di buon mattino, e disporrà su di essa l'olocausto" (Levitico VI, 5). Il fuoco va alimentato continuamente: come il sacerdote si dispone all'alba a rinnovare la legna sull'altare dei sacrifici, così ognuno di noi che è il sacerdote del proprio Tempio, della propria vita, deve disporre i nuovi elementi sull'altare del proprio cuore; è su di esso che devono essere presentati i nuovi sacrifici, è su di esso che noi dobbiamo presentare a Dio l'offerta pura delle nostre rinuncie; ma bisogna prima sgomberare la cenere delle nostre passioni. Bisogna presto, al mattino - prima che i contatti contaminino la nostra anima pura - bisogna che il nostro fuoco sia riacceso e l'anima nostra, che è scesa in noi purissima da Dio, faccia crescere e divampare la propria favilla che da piccola face diventi, sempre più, fuoco inestinguibile che arda, riscaldi, si dilati e risplenda vivido sull'altare del nostro Tempio.