RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ


XXVII - XXVIII

TAZRIÀ - MEZORÀ

(Levitico XII - XV)

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Continuano nelle due lezioni sabbatiche odierne le prescrizioni della Torà relative alle leggi di purità e di santità che abbiamo visto ed esaminato nella Parashà precedente. Queste leggi si riferiscono alle impurità fisiche e alle malattie impure che possono contrarre gli uomini, gli oggetti, le cose, gli abiti. Come si vede si tratta di un'ampia estensione di questo concetto di purità a tutto l'ambiente che circonda la vita dell'uomo.

Forse qualcuno leggendo superficialmente queste pagine che sembrano fin troppo aride con le loro scrupolose prescrizioni rituali, si domanderà come mai la Torà ha sentito il bisogno di occuparsi di certi particolari della vita, che alla mente del profano di oggi sembrano essere sottratti al così detto campo religioso. E qui torna presente il concetto su cui ho insistito l'altra settimana a proposito delle leggi alimentari: si rischia di fraintenderne il significato profondo esaminandole sul piano - direi - della vita fisica: bisogna esaminare tutte queste leggi su un piano superiore; anzi qui non si tratta, come a prima vista potrebbe sembrare, di infezioni fisiche o di malattie del corpo. Queste probabilmente non sono che i simboli di malattie morali e in ogni caso la genesi, lo sviluppo, la guarigione della malattia fisica è considerata in stretto rapporto con la vita spirituale. Una riprova evidente di ciò si ha in un particolare che torna frequente in tutte queste prescrizioni e che è comune ad esse: un particolare che è in certo modo un punto costante di riferimento: questo particolare consiste nel fatto che la persona preposta ad esaminare, giudicare, guarire le infezioni e le malattie è il sacerdote.

Lo stesso sacerdote che preposto al Santuario, simbolo della vita spirituale, è colui al quale è demandato l'ufficio di giudicare il carattere delle impurità. Come si spiega questo fatto se non con l'ammissione che la vita del corpo e dell'anima formavano un tutto inscindibile?

Non è questa una riprova luminosissima che la vita del corpo non era staccata o contrapposta a quella dell'anima, ma armonicamente fusa con essa al punto che le piaghe fisiche avevano una stretta correlazione con quelle morali? Il sacerdote era il medico del corpo e dell'anima, e si è così fin da allora affermato quel meraviglioso abbinamento corpo e anima, che ha portato più tardi i nostri più grandi maestri e rabbini ad essere anche grandi scienziati e medici.

Vi doveva essere nell'antico Israele una profonda sensibilità a scorgere in ogni fatto fisico un riflesso di uno psichico, sensibilità che sfugge a noi moderni e che ci preclude forse, come avvertiva Maimonide, la possibilità di penetrare a fondo nel significato di queste leggi. Una riprova evidente di questa tendenza si ha in un detto talmudico ove a proposito delle piaghe e malattie di cui si parla nella lezione odierna, si dice che molte di queste piaghe provengono da colpe di carattere sociale, prima fra queste la maldicenza, il lashon ha-rà, e si dice che una delle sanzioni più frequenti a questa grave colpa sociale sia appunto quella malattia della lebbra di cui tante volte ricorre menzione nella Parashà odierna. L'impurità delle persone, degli abiti, delle cose, sono altrettanti simboli delle piaghe morali di cui possono essere affetti gli individui e le famiglie: quante piaghe, infatti nelle nostre famiglie, quante nelle nostre case, nei nostri corpi, nelle nostre persone! Chi deve avvertire e curare queste piaghe e malattie se non il medico dell'anima? Ecco dunque la figura del sacerdote, dell'uomo pieno dello spirito di Dio che scorge l'origine non fisica ma metafisica dei mali e ne cura la guarigione. Vi sono infatti piaghe morali che sono più dannose e micidiali di quelle fisiche, vi sono malattie morali di individui che richiedono l'isolamento, l'allontanamento di chi ne è affetto dall'ambiente in cui vive. La nostra Torà prevede e precisa con minuziose regole questo isolamento, come pure sancisce le norme per la riammissione dell'individuo o della famiglia nella società a guarigione avvenuta. Al sacerdote è affidato questo delicatissimo compito della esclusione e della riammissione, perché egli può avere esatta cognizione delle giuste esigenze necessarie per ristabilire l'ordine e l'armonia spirituale in mezzo ad Israele: ai sacerdoti la Torà dice infatti: "avvertirete i figli di Israele della loro impurità e non morranno per la loro impurità contaminando la mia dimora che è in mezzo a loro" (Levitico XV, 31). La società di Israele è, deve essere, una società santa e pura, in mezzo ad essa deve dimorare il Signore, e perciò qualsiasi contaminazione nel corpo e nello spirito, qualsiasi impurità della vita deve essere eliminata per riavvicinare sempre più il popolo santo a Colui che è fonte di ogni purezza. Il sacerdote che è vicino al Santuario del Signore deve portare questa luce e questa volontà di purezza a contatto con gli altri; deve ottenere il periodico ripristinamento dell'ordine spirituale nella società ebraica. Questa volontà di purezza deve innamorare gli altri; deve avvicinarli alla santità; deve far sì che il popolo diventi come la Torà dice: un reame di sacerdoti, un popolo santo.