RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ


XXXVII

SHELÀCH-LEKHÀ

(Numeri XIII - XV)

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All'episodio della prima ribellione degli ebrei nel deserto segue nella Parashà di oggi il racconto ampio e particolareggiato della esplorazione della terra di Canaan, da parte dei dodici rappresentanti del popolo. E un racconto popolare e conosciuto quello dei dodici esploratori forse il più noto di tutta la vita d'Israele nel deserto, ma anche quello ove più chiaro si determina il contrasto tra coloro che nella vita guardano all'Assoluto e quelli che si fermano al contingente. Basteranno pochi cenni riassuntivi del noto episodio. Siamo ai confini della terra di Canaan, di quella terra che nei decreti di Dio è scritto debba essere la terra d'Israele. Mosè per rispondere al desiderio espresso dal popolo, consente ad inviare un ristretto nucleo di uomini col compito di conoscere da vicino il paese; la natura di esso, il clima, le caratteristiche degli abitanti e quelle delle città da essi occupate. Gli esploratori partono: sono dodici, uno per tribù e tutti scelti fra gli elementi più in vista, più rappresentativi del popolo. Entrano nel paese dalla direzione di Sud, lo percorrono in lungo e in largo e dopo un periodo di quaranta giorni tornano a Kadèsh, ove si trova accampato Israele, recando a spalla gli esemplari magnifici della lussureggiante flora palestinese. Ci si aspetterebbe una relazione ottimistica e una smagliante descrizione del paese, invece è tutt'altro. Gli esploratori riconoscono che la fertilità della terra è superiore ad ogni aspettativa, ma, quanto alla conquista sono profondamente scoraggiati: il popolo o meglio i popoli che vivono nel paese sono, dicono gli esploratori, di natura gigantesca, dimostrano di possedere una potenza eccezionale e le città fortificate che quei popoli abitano sono addirittura inespugnabili, sicché sarebbe veramente una follia tentare l'impresa di una conquista. L'impressione suscitata da questa relazione sull'animo del popolo è addirittura deprimente: il popolo comincia a lamentarsi e a piangere, non vede ormai dinanzi a sé che il pericolo, rimprovera a Mosè di averlo fatto uscire dall'Egitto per andare incontro a morte sicura e per cadere preda di un nemico così terribile e tutti si augurano quasi di morire piuttosto che cimentarsi coi titani di Canaan e a nulla servono le esortazioni non solo di Mosè, ma di due degli esploratori che contro gli altri dieci assicurano al popolo che la potenza dei nemici sarà un'ombra quando l'aiuto di Dio si rivelerà come già si e rivelato in tutta la Sua maestà.

Il popolo è ostinato e minaccia nel suo furore di lapidare i due campioni della fede se non desistono dalle loro sollecitazioni all'impresa! A questo punto Mosè, che come nessun altro ha netta la sensazione delle gravissime nuove colpe del popolo, si rivolge in preghiera a Dio perché non voglia distruggere questa massa di ribelli e di ingrati e perché ne voglia ancora perdonare l'incredibile infedeltà. Ed il Signore aderisce in parte alla supplica di Mosè: egli non farà sterminio di tutto il popolo, ma annunzia solennemente che nessuno di quella generazione ingrata e caparbia porrà piede nella terra promessa. Sarebbe questo il popolo di fede che dovrebbe d'ora innanzi popolarla? Sono questi i risultati degli insegnamenti offerti ininterrottamente a questo popolo? Sono questi i risultati degli atti di prodigio compiuti dall'Egitto in poi e tutti attestanti la vivente presenza di Dio e la sua immutabile protezione verso il popolo? No, questo popolo non è degno di entrare in quella terra, ove deve essere instaurato il regno della fede e dello spirito. Questo popolo, questa generazione perirà così come si è augurata nel deserto; entro un periodo di quarant'anni tutta questa perversa generazione finirà; ma non finirà il popolo; sorgerà una nuova generazione sana spiritualmente e forte nella fiducia in Dio: sarà la generazione dei fanciulli di quei figli infatti che il popolo oggi si augurava di non veder cadere in preda al nemico, saranno loro i figli, i giovani che invece entreranno trionfalmente nella loro terra!

L'episodio centrale degli esploratori è l'esempio vivente di quella colpa che, ahimè, tanto spesso si ripete in Israele e negli uomini: la mancanza di fede o di forza spirituale. Se questa colpa è grave per gli altri è imperdonabile per Israele, che dalla sua storia antica o recente ha avuto, sì da apprendere la legge del sacrificio, ma ha potuto anche dedurne le prove irrefutabili dell'immancabile aiuto di Dio. Eppure vi sono sempre stati e vi sono in Israele due gruppi: gli uomini di fede e gli uomini senza fede; i primi quasi sempre, come al tempo del deserto, in minuscola minoranza: i secondi in grande maggioranza. V'è sempre stato e c'è in Israele e fra gli uomini chi ha paura degli eventi, chi ha paura di affrontare i pericoli, chi propaga questa paura agli altri: e vi è chi invece guarda tranquillo ai compiti futuri, perché l'animo è sereno e forte in Dio.

E la storia si ripete, come ai tempi del deserto: i pavidi e i ribelli morirono nel deserto spirituale della loro vita, così anche ieri come oggi i pavidi e gli inerti saranno le vittime della propria debolezza; chi sopravviverà saranno i forti, forti non del corpo, ma dello spirito; i forti, i giovani e i fanciulli su cui, secondo le parole del Salmo, Iddio stabilisce la forza della fede, saranno i giovani e i fanciulli che con le elementari forze del loro animo sapranno guardare non in basso, sulla terra fatta perversa dall'odio degli uomini, ma verso i cieli eterni di Dio, che saprà sempre donare forza e vittoria a chi in Lui guarderà, in Lui riconoscendo la propria forza e la più vera speranza.