RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ


XL

BALÀK

(Numeri XXII,2 - XXV,9)

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 Dopo gli avvenimenti della vita nel deserto che abbiamo esaminato nelle Parashoth precedenti e dopo il racconto delle prime rapide e decise conquiste d'Israele nel territorio al di là del Giordano, ecco la Parashà di oggi presentarci un fatto assolutamente nuovo, un episodio del tutto staccato dal complesso degli altri avvenimenti, un episodio al quale nulla troviamo che si avvicini nella successiva storia d'Israele. Il fatto è questo: un re, il re Balàk di Moab, il cui territorio è immediatamente confinante con quello di recente conquistato da Israele, udite le notizie sulle straordinarie vittorie riportate dal popolo ebraico sui grandi due re degli Emorei, Sihon e Og, seriamente preoccupato per la sorte che attende ormai il suo popolo, sicuro che nessuna forza materiale può opporsi con successo alla marcia d'Israele verso la sua terra, ricorre a un mezzo strano per piegare le forze del popolo ebraico. Chiama a se da lontana terra un illustre e famoso profeta Bil'am, uno di quei personaggi che si ritenevano dotati di eccezionale forza spirituale al punto da poter decretare la benedizione o la maledizione su individui e popoli, chiama dunque Bil'am a se, perché tutte le risorse della sua magia e della sua profezia metta in opera contro Israele.

Sennonché a Bil'am, il cui sollecito intervento viene con ogni mezzo provocato, appare una visione notturna nella quale Dio, senza impedirgli a priori il viaggio, gli dice tuttavia di guardarsi bene dal pronunciare un vaticinio che non sia conforme alla divina volontà e in ogni caso lo avverte che quel popolo, a maledire il quale egli sarebbe chiamato, è un popolo che Dio ha benedetto. Sebbene egli sia oramai edotto in questa verità, Bil'am, forse sollecitato dalle grandi seduzioni di Balàk, si decide ad intraprendere il viaggio, nella speranza segreta che il disegno di Dio possa essere mutato e che a lui sia dato di soddisfare il desiderio del re che lo ha chiamato. Vana speranza, perché tutti i propositi di usare le arti più malefiche degli incantesimi e degli oracoli cadono miseramente dinanzi alla volontà di una forza superiore che non vuole la maledizione d'Israele.

Ed eccoci qui dinanzi ad una delle più alate pagine bibliche, eccoci dinanzi ad una pagina di altissima poesia e profezia, eccoci ancora dinanzi a una scena grandiosa di cui sono protagonisti un re e un profeta delle genti da un lato, Israele e la volontà di Dio dall'altro. Per ben quattro volte Bil'am, alla presenza dell'impaziente Balàk, vorrebbe rivolgere il suo oracolo contro Israele, e per ben quattro volte la profezia esce dalle sue labbra in accenti, che sotto immagini diverse e tutte magnifiche, rivelano e annunciano dinanzi all'attonito e sbigottito monarca, il superbo destino d'Israele. "Come potrei maledire colui che il Signore non ha maledetto, e come esecrare colui che l'Eterno non ha esecrato?" (Numeri, XXIII, 8).

"Iddio non è uomo perché Egli mentisca, non mortale perché Egli si penta. E può Egli dire una cosa e non eseguirla, può Egli parlare e non mantenere?". "Ecco Egli non scorge iniquità in Giacobbe, non vede perversità in Israele, l'Eterno, il Suo Dio è con lui e la squilla del Re lo accompagna... Non vale magia contro Giacobbe, non incantesimo contro Israele; a suo tempo sì dirà di Giacobbe e d'Israele: quale opera Iddio ha compiuto!" (Numeri XXIII, 19 e seg.).

Mentre Bil'am pronuncia questi oracoli dall'altezza della montagna di Moab, una scena superba si presenta ai suoi occhi: è l'infinita serie delle tende d'Israele, è l'immenso accampamento del popolo per la sterminata valle, è il popolo diviso e mirabilmente ordinato nelle sue tribù, è il popolo che ha al centro l'insegna del Tabernacolo di Dio, l'insegna del Santuario e della Torà; dinanzi a questa visione Bil'am esce in questi accenti ispirati e ammirato esclama: "Quanto sono belle le tue tende, o Giacobbe, la tua dimora o Israele; esse si stendono come valli, come giardini in riva a un fiume, come alòe piantati dall'Eterno, come cedri vicini alle acque" (Numeri XXIV, 5). Le tende di Giacobbe esaltate dal profeta, sono quelle che esistono sempre, sono secondo i nostri maestri, i templi e le case di studio, ove l'acqua della Torà può scorrere a rivi, ove si piantano e crescono i germogli magnifici della sapienza e della dottrina, ove le piante più superbe possono crescere! L'elogio della vita e dell'avvenire d'Israele contenuto in queste parole e nelle altre che seguono, è un elogio che commuove e scuote profondamente il nostro animo. Non è il vaticinio di un profeta ebreo, ma quello di un pagano che vorrebbe imprecare alle doti di questo popolo, ma che dinanzi alla forza spirituale che da esso proviene, non può che inchinarsi ed associarsi all'augurio di splendido avvenire e di gloriosa sorte, che spetterà a questo popolo che, contro ogni volontà di maledizione e contro ogni perversità, il Signore l'Eterno ha benedetto!