RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ


XLIV

DEVARIM

(Deuteronomio I - III, 22)

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Questo Shabbath nel quale abbiamo impreso a leggere il V° e ultimo libro della Torà, è un sabato segnalato, uno dei sabati tristemente segnalati, perché è il sabato che precede la giornata del 9 di Av, la giornata che segna la data più luttuosa del calendario ebraico. Di solito questo sabato è dedicato a discorsi meditativi sul dolore di questo giorno così nefasto negli annali d'Israele, tanto che in esso segue la caduta, a distanza di secoli, dei due Santuari di Gerusalemme e il tramonto dello Stato ebraico. Così è conosciuta questa data in Israele e ben si comprende come per essa Israele faccia lutto e digiuno, piangendo la rovina delle cose sacre e della Terra Santa, piangendo per il ricordo di quella terra che vide i suoi figli andare in esilio e il Santuario demolito. Da allora, da quel giorno cominciò il lungo esilio d'Israele, cominciò per lui il cammino per le vie del mondo, da allora non solo la vita materiale fu distrutta, ma anche quella dello spirito fu sminuita, da allora fu come se il sole si oscurasse e la luna non risplendesse più nei cieli, fu come se la Shekhinà, cioè l'immanenza di Dio nel mondo, si allontanasse e andasse in esilio, fu come se fossero spezzati i rapporti tra cielo e terra, tra Dio e gli uomini.

Dice il Midrash: "dal giorno in cui è distrutto il Santuario, non c'è più sorriso dinanzi al trono del Santo Benedetto Sia".

È come se non solo Israele, non solo la terra, ma anche il cielo facesse cordoglio per la grande catastrofe che si è abbattuta sul mondo. Questo spiega anche ai lontani il significato permanente di questo pianto: non è soltanto quella caduta, non è soltanto quell'esilio, quel dolore; ma è il dolore d'Israele, l'esilio, la caduta d'Israele che continua. Se si trattasse di una semplice data nefasta, forse ormai, dopo duemila anni, essa sarebbe andata dimenticata dall'animo di Israele, ma invece si tratta di piangere la causa di quella caduta, l'allontanamento dell'idea di Israele da Israele e dal mondo, quella causa che tuttora permane e che attende ancora di essere rimossa perché la riconciliazione avvenga tra Dio e Israele, tra Dio e gli uomini.

Il dolore e il pianto di Israele si condensa, sì in questa giornata, si accentua, sì, sul Santuario, ma non è che un potenziamento di un dolore che è diffuso su tutti i giorni, è un pianto di tutte le ore, perché è il dolore di Israele che ha smarrito la sua anima, è il pianto del popolo che ha perduto il suo Dio. C'è un Tishà Beav del popolo e un Tishà Beav dell'individuo. E per questo motivo che Israele ricorda il Tempio non una sola volta l'anno, ma tutti i giorni nelle sue preghiere è espresso il palpito e la nostalgia per la terra abbandonata, per il Santuario che non è più, per l'idea e per la gloria di Dio che si è involata di mezzo al popolo. E così dinanzi allo spirito di ogni generazione d'Israele, non è il dolore fisico o la rievocazione dei mali di allora che si rinnova, ma e lo scoramento per l'ideale inattuato, per la Torà profanata prima che dagli uomini da Israele stesso. Nessun giorno quanto il 9 di Av è capace di evocare tanti ricordi e di suscitare tante speranze; in nessun giorno forse si esprime così pienamente il palpito dolorante della gente di Israele: sono le colpe di tutto il popolo che vengono rievocate, quelle colpe che hanno condotto, nonostante gli ammonimenti severi dei profeti, all'inevitabile catastrofe. Israele evoca il suo passato doloroso, ripercorre quasi i suoi duemila anni di mali e di dolori, riesamina tutto il cammino delle generazioni; risale il monte del Tempio e si china riverente e commosso sulle sue rovine, ma l'anima d'Israele anche così dolorante ha ancora posto per una speranza, è la speranza che ogni giorno si ripete, ma che in questo giorno diventa più grande e luminosa; dalle ceneri del Tempio distrutto, dai fuochi dell'altare abbattuto, gli Angeli di Dio hanno salvato una scintilla, l'hanno salvata e l'hanno custodita perché il mondo non fosse addirittura condannato alla perdizione; è questa face che si può riaccendere nell'animo d'Israele, purché si sappia dissuggellarla dai luoghi ove essa è custodita, è questa face che attende di essere ridonata agli uomini per mezzo d'Israele che anela e sogna di farla risplendere ancora su quel monte che è il monte della gloria di Dio.