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RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ

LII

VAJÈLEKH

(Deuteronomio XXXI)

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Breve Parashà quella di oggi, come oramai le rimanenti di questo ultimo libro della Torà, brevi Parashoth, perché oramai, come abbiamo accennato, Mosè ha esaurito il suo insegnamento, ha ultimato i suoi solenni discorsi ammonitori ed egli si prepara oramai a quell'ora che diviene sempre più imminente e che sarà l'ora del suo estremo distacco da questa terra. Prima che questo distacco sia un fatto compiuto, Mosè compie alcuni atti che sono destinati in certo modo a continuare parzialmente la sua opera anche dopo la sua scomparsa. Il primo di questi atti è la solenne consegna fatta al suo successore Giosuè già precedentemente designato ad essere la guida del popolo nella conquista della terra. Giosuè deve sapere che egli d'ora in ora diventerà il capo di questo popolo e dovrà condurlo alla conquista della terra di Canaan. Giosuè non deve sgomentarsi dinnanzi a questo compito; le prove sono lì a dimostrare che Iddio protegge il popolo. Già i re della terra al di là del Giordano sono stati vinti, altrettanto accadrà per quelli che sono al di qua del Giordano. Giosuè deve essere quindi sicuro della propria missione, per trasmettere a sua volta questa sicurezza al popolo: Sii forte e saldo!... Sappi che il Signore procede innanzi a te, Lui ti accompagnerà non ti lascerà e non ti abbandonerà, non temere, dunque, e non paventare! (Deut., XXXI, 7 e seg.).

Assicurata così al popolo la guida nella persona del giovane e sapiente condottiero, Mosè compie un secondo atto, per certi aspetti molto più importante del primo: egli procede alla scritturazione di tutta la Torà, di quella Torà che da lui prenderà il nome. Finita la trascrizione egli consegna solennemente ai Leviti ed agli anziani la copia di questa Torà, e raccomanda che sia posta a fianco dell'Arca, vicino alle Tavole del patto, perché sia una perpetua testimonianza di quell'alleanza con Dio che il popolo purtroppo potrà facilmente dimenticare; raccomanda inoltre che ogni sette anni in occasione dell'anno sabbatico, in una solenne convocazione di popolo, simile forse a quella tenuta poco fa da Mosè stesso, sia fatta una pubblica lettura della Torà, affinché il popolo da questa solenne radunanza impari a conoscere e a ricordare il suo Dio e tutti i divini comandi.

Sublime esempio, questo del grande profeta, il quale si preoccupa che anche dopo la sua scomparsa, il popolo che pure tanta ingratitudine gli ha dimostrata, abbia ancora un'eco del suo divino insegnamento e fatto sapiente dalla vita e dalla storia, cerchi di attuarlo sempre più perfettamente. Sublime esempio, dicevo, di questo principe della Torà che tutta la sua vita ha dato al sublime scopo di elevazione del popolo, ma che nulla ha ricevuto in premio. Neppure quello che sarebbe apparso il più naturale e il più giustificato: l'ingresso in quella terra che era stato il sogno e il sospiro di tutta la sua vita. Sublime esempio di dedizione e di supremo idealismo. Mosè ormai non vive per una ricompensa terrena, Mosè ormai è sulla terra ancora, ma il suo spirito è già nell'alto dei cieli, Mosè vuole e aspira che la Torà di Dio, che il supremo insegnamento viva e continui dopo di lui e oltre lui, viva e sia perenne testimonianza di quella verità che egli ha proclamata e che egli spera possa diventare ragione di vita eterna, modello di santità per quel popolo cui fu destinata.